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Passeggiando tra i boschi lessicali

Citando, e molto spesso saccheggiando, il bel libro di Umberto Curi "Le parole della medicina" troviamo che in greco antico Therapeia vuol dire servizio e Theràpon servitore. Questo in epoca omerica. Attenzione però!  Si tratta di un rapporto tra uguali con implicazioni affettive tra cui la reciprocità del servizio. L'Ob-audire latino vuol dire innanzitutto porsi in una dimensione di ascolto profondo che nasce dalla preoccupazione, dal prendersi cura di.  Premura, sollecitudine ed interesse stanno pertanto alla base della Therapeia in questo contesto.  Da rilevare che l'obbedienza può portare a non eseguire alla lettera quel che l'altro dice di volere ma ad agire criticamente per migliorare la sua condizione, fornendo ciò di cui ha realmente bisogno.

In epoca classica Therapeia è il servizio dello schiavo verso il padrone; il rapporto tra ineguali e la subordinazione gerarchica generano obbedienza obbligata senza reciprocità pur non escludendo a priori elementi affettivi.

Ancora resta intatto il senso generale del termine: prendersi cura di.

Oggi, consultando l'enciclopedia Treccani alla voce Terapia, ovvio discendente dell'avo greco, scopriamo che è "studio ed attuazione concreta dei mezzi e dei metodi per combattere le malattie". Una accezione secondaria, derivata e comunque minoritaria, è diventata pressoché unica; curare ha soppiantato il prendersi cura. Come mai questa professionalizzazione della parola? Eppure ancora al tempo dei medici ippocratici alla base del loro "servizio" restava la premura e l'ascolto dell'assistito, indipendentemente dal somministrare farmaci o offrire pratiche terapeutiche.

A volerci giocare un poco resta ancora la genuina preoccupazione soggettiva di Patroclo che si pone in ascolto di Achille. Ricordiamoci dell'ob-audire.

Passano i secoli ed osserviamo che sempre di più il termine diventa tecnico, un'esclusiva della classe medica.

Praticamente il solo che possa legittimamente curare il paziente (e ci sarebbe qualcosa da dire sull'implicita passività del termine) è il medico.

Posso esser quanto voglio in pensiero per la persona cara che sta male ma è il medico a curarlo. E curare non ha più connotazioni affettive ma corrisponde ad un insieme di pratiche rivolte al paziente.

Dalla produzione industriale di massa in poi la cura è sempre più impersonale. Il medico cioè, con centinaia di pazienti, trasferisce la sua soggettiva sollecitudine in atti concreti "neutri",  anaffettivi.  I suoi successi, la sua efficacia sono misurabili in base a parametri quantitativi. Medico del corpo o della psiche, il terapeuta impone al paziente una cura spersonalizzata. E il paziente obbedisce. Il terapeuta per migliorare la sua validità ed efficacia professionale deve essere a-patico.

In parole povere non può coinvolgersi emotivamente altrimenti la sua cura potrebbe risultare meno scientifica; mentre, sempre con maggior evidenza, solo se basata su "protocolli astratti universalmente convalidati", a prescindere dalla specifica individualità dell'assistito, è legittima ed accettabile. E così vediamo come il termine abbia percorso una lunga via che lo ha portato al rovesciamento totale del significato originario.

 

Arte

Che dire su questa parola? Perdersi qui è facilissimo. Ed allora partiamo da qualche "banalità di base" etimologica per poi soffermarci su alcuni spunti adeguati al campo della nostra indagine collettiva. Nel senso più ampio arte è "la capacità di agire e produrre che si basa su un complesso di regole e tecniche quindi è anche l'insieme delle regole e tecniche che servono a svolgere una attività". 

Così il dizionario Treccani che, per il neologismo arteterapia, recita invece "disciplina terapeutica e riabilitativa basata sulla pratica di una forma d'arte". Già così ci accorgiamo di riscontrare accezioni diverse del termine. Per completezza aggiungiamo che la parola arte deriva dal latino ars che ha come primo significato "ogni attività mirata a progettare o a costruire in modo adatto ed armonico qualcosa". A sua volta la parola latina pare derivare dalla radice sanscrita Ar indicante "l'andare verso ed in senso traslato adattare, fare, produrre".

Facciamo allora riferimento alla storia delle idee. Si può infatti affermare che nel corso del Rinascimento italiano vengono definiti i criteri teorici dell'arte come la conosciamo comunemente, con determinate caratteristiche. Questa è tendenzialmente immateriale, lontana da ogni utilità pratica, regno dell'idea, della profondità complessa, dell'armonia, della verità e della verosimiglianza, del valore e del significato. Insomma sono sanciti i criteri distintivi tra quel che è arte e ciò che non lo è. Ma cos'è un'opera d'arte? L'opera d'arte, una volta scagliata nel mondo, direbbe Blanchot, ha vita propria.

Nata da un soliloquio, inizia un dialogo coi suoi interlocutori e se, superando il tempo e la società di nascita, diventa un classico, allora con il Calvino delle "Lezioni americane" potremmo dire che "non ha mai finito di dire quel che ha da dire", veicolando incontri e scontri di significati.

E poi vennero le avanguardie storiche a render sempre più complicate ed enigmatiche le cose, almeno teoricamente. Pensate un po' che oggi alcuni sostengono che nel nostro bosco la pianta arte sia estinta e altri invece che sia dappertutto.

Ma torniamo al nostro campo d'indagine prima che un paesaggio molto nebbioso possa disorientarci: cerchiamo elementi operativi. Mario Perniola in una sua opera giovanile

"L'alienazione artistica" notava già, sul principio degli anni '70 del secolo scorso che, a volte, il percorso che conduce all'opera diventa più significativo dell'opera stessa come prodotto finale. Talora questo prodotto finale è ben poca cosa, seppure esiste.

Ancora, nell' "Arte espansa" del 2015, il nostro Autore documenta in modo geniale quanto sia labile ed impalpabile il confine tra arte e non arte e come da ciò il sistema artistico ne esca profondamente destabilizzato.

Si può a questo punto avanzare un'ipotesi: l'operazione artistica insita nell'arteterapia potrebbe rifarsi proprio alla radice sanscrita Ar, al "muoversi verso" il recupero, da parte di chi percorra se stesso attraverso pratiche artistiche, di elementi smarriti, rimossi o comunque inconsci da integrare in una personalità più armoniosa ed autentica. Il che sarebbe poi il punto finale, ma continuamente in divenire, di questa particolare operazione artistica, in cui l'opera d'arte sono io.

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