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Non abito il corpo, sono il corpo

di Annica Cerino

L’armatura è il risultato finale dell’adattamento personale alla propria realtà, si viene a creare fin dai primi vagiti. Nel corso della prima infanzia il bambino ha dovuto rinunciare a  parti di sé che non erano promettenti per la sopravvivenza  emotiva e a volte fisica, dall’altro canto ha dovuto rinforzare quei tratti a cui l’ambiente circostante rispondeva in modo positivo e che accettava. La rinuncia alle parti di sé più vere ha comportato la rinuncia ad un modo di essere e di sentire e anche di agire, all’espressione della propria autenticità.

 

Fin da piccolo impara ad esprimere e a fare esperienza solo delle emozioni concesse dall’ambiente e a valorizzare quel modo di comportarsi accettato e valorizzato dal suo contesto. Tale adattamento in analisi bioenergetica viene chiamata armatura caratteriale, la quale si configura come un sistema difensivo. Un modo di relazionarci che si perpetua nel tempo.

 

Lungo lo scorrere dell’esistenza restiamo cristallizzati in immobili certezze disfunzionali al nostro quotidiano esistere.

Ma da cosa ci si difende?

Dal sentire.


Il nostro modo di sentire si  cristallizza in un percepire la realtà condizionato dai dettami dell’ambiente, vincolato dal bisogno di amore e dalla paura di non riceverlo.

 

Ci difendiamo dalla paura di dare ascolto e poi espressione a quella voce inquieta che dimora dentro di noi, una voce estranea e che ci spaventa, è la voce della veridicità.  Da qui nasce il conflitto, che in Bioenergetica viene chiamato “blocco”, ed è l’incapacità di evolvere in ciò che siamo. I buddisti chiamano questo stato “attaccamento”.

 

Ci dimeniamo tra ciò che è accettabile e ciò che la nostra vera natura ci grida di essere dal profondo delle viscere.

 

Oscilliamo, nevroticamente, tra la paura e il bisogno di diventare se stessi.

 

Conviviamo con il sentimento della rassegnazione o della ritrazione dalla vita, oppure viviamo con risentimento e aggressività, rendendo difficile la possibilità di vivere serenamente le relazioni.

 

Dal punto di vista corporeo, sincronicamente, l’adattamento alla realtà e il suo conflitto si riflettono nelle trame del nostro corpo.  Il corpo si forma e si forgia come armatura corporea e si struttura in un’ insieme di tensioni muscolari e rigidità croniche.  Le stesse che costellano il nostro mondo emotivo. Dunque, il corpo si comporta come uno specchio. Da esso possiamo vedere come la persona ha cercato il suo posto nel mondo, come vive l’amore, in che modo lo cerca e in che modo riesce a darlo. Dalle sue tensioni e dalla conformazione si può desumere quali sono le sue difese. La postura, il respiro, la voce, la gestualità, il movimento, la sessualità ci possono dare indicazioni di quali sono i sentimenti di cui non riesce a fare esperienza, quali siano i suoi reali bisogni, le aspirazioni e le sue mancanze.

 

Cosa fare per  rimuovere tali blocchi corporei e caratteriali,  come dissolvere l’armatura caratteriale e l’armatura corporea per raggiungere la nostra personale verità, per avvicinarsi alla nostra natura? A ciò che siamo veramente?

Come brillare di luce propria?

 

Affidarsi alla realtà. A quello che è, a ciò che viene. C’è una misteriosa magia nella realtà: riesce a restituirci parti di noi, seppur all’inizio ci mostriamo riluttanti a vederle, la realtà implacabilmente ce le rimanda ancora. Forse, con più incisività di prima. Il sottrarsi a tale esperienza, incacrenisce le nostre armature e la sofferenza di non riuscire a far respirare quegli aspetti tenuti al buio.

 

Non c’è niente da imparare, piuttosto occorre disimparare tutti gli automatismi appresi per essere amati.

 

L’essere umano è  un’essenza incarnata in un corpo e con la Bioenergetica il corpo diventa il mezzo di cui si serve l’essenza per  realizzare il suo destino.

Praticare Bioenergetica vuol dire prendere consapevolezza dei propri automatismi per liberarsi da essi, ascoltare il corpo che ci rimanda sempre e ineluttabilmente la personale realtà in cui siamo immersi. La realtà del corpo è la storia di un vissuto che ha creato una dissociazione con la propria essenza, che ha generato un conflitto ed è anche la storia dei suoi bisogni più reconditi, eppure i più veri.

 

Il corpo è la realtà, con i suoi tentativi di nascondersi, di giustificarsi, di affermarsi dietro il mascheramento, di rassegnarsi. Praticare Bioenergetica vuol dire praticare la realtà.

Il corpo è reale. Non mente, non può. È quello che è.

 

Praticare bioenergetica, soprattutto se associato ad una terapia, ci guida a lasciare andare quello che non ci appartiene, vivere senza la paura del giudizio, il nostro. Allentare i pregiudizi. Ammettere con sincerità, magari, nel cantuccio caldo  delle coperte del nostro letto, la sera  prima di addormentarsi, di cosa abbiamo paura.

 

Gli esercizi di Bioenergetica aiutano  a decondizionare il corpo dalle sue posture, dai suoi movimenti ripetitivi ed ovvi, aiutano a dissolvere il pregiudizio che abbiamo prima di tutto di noi stessi, a non vergognarci di vedere e sentire il corpo muoversi diversamente dai suoi costrutti.

 

Con essi si sperimenta la libertà, la libertà di movimento. Insegnano a porre più attenzione al nostro sentire corporeo, ad essere presenti a noi stessi, a ciò che sta succedendo, a sviluppare l’ascolto e la concentrazione, a dare una diversa espressione alla corporeità dissolvendo la paura dell’inaccettabilità, recuperando un sentire più pulito.

 

Ci restituisce un’immagine più vicina alla realtà del proprio corpo e della sua percezione, allontanandoci dall’immagine ideale dell’Io, ovvero, dalla rappresentazione immaginativa sulla quale abbiamo costruito la nostra quotidianità. E i nostri costrutti difensivi.

 

Il coraggio di praticare  Bioenergetica

Occorre coraggio per praticare Bioenergetica perché ci ribalta la prospettiva: dall’ideale al reale, dal pensare al sentire, dal condizionamento alla libertà. Ci impone di accettare i propri limiti e anche quelli che riteniamo tali, occorre lasciar andare la zavorra del dover dimostrare, la prigionia della prestazione, l’asfissia del controllo e lasciarci andare al movimento così com’è senza tentare di modificarlo. Sarebbe una forzatura, una stortura. Occorre “lasciare essere”.

 

La pratica Bioenergetica mira a farci sperimentare la libertà. In quest’ultima si annida la responsabilità del radicamento e della propria realizzazione.  Quando la Bioenergetica, e il lavoro su di sé, ci pone davanti a quel momento introspettivo sul mutare del proprio essere e sentire, quando sentiamo che le strettoie dei processi automatici si stanno sciogliendo, ci poniamo  una domanda:< E adesso cosa voglio fare da grande?>. Ed è a questo punto che fa capolino la Signora Responsabilità.

< Dove voglio condurmi?>

 

Siamo liberi di scegliere come trattare la nostra vita e come continuare a prenderci cura di noi, possiamo obbedire solo alla nostra volontà e non soggiacere passivi e rancorosi ad un Super-Io schiacciante. O continuare  ad immaginare futuri improbabili. Fluidificate le proprie resistenze corazzate, abbiamo la responsabilità delle nostre scelte.

Con un percorso di evoluzione personale integrato alla pratica Bioenergetica, ci regaliamo l’opportunità di stropicciare il corpo e gli animi, di riflettere e di evolvere verso un nuovo e più autentico sentire la vita.

 

Non abito il corpo, sono il corpo.

Se dicessi che abito il corpo ammetterei una dualità a cui non credo, affermerei un antinomia che per sua natura è una contraddizione in termini.

Nel momento in cui dò attenzione al mio corpo sto ascoltando la mia essenza.

 

Lungo l’itinerario di un processo di elaborazione individuale, si disseppelliscono campi della memoria che giacevano sotto la polvere del tempo e si è pervasi come da voci remote; emergono figure che via via si fanno sempre più nitide.

Non è un momento facile.

 

Si vanno a riconoscere le nostre cedevolezze, i volti dei propri aguzzini, l’ambiente che ha castrato la nostra spontaneità.  Il ricordo della  mancanza di forza e di “personalità” che abbiamo avuto in alcune circostanze acuisce la rabbia che ora proviamo. L’amore che avremmo voluto, ma non abbiamo ricevuto. Il riconoscimento che ci aspettavamo dalle persone che amavamo. Gli intimi trasalimenti di una regione inconscia ci fa vivere un dolore, a volte, spiazzante.

 

Possiamo solo capitolare senza condizioni, consapevolmente.

Perdere la riva del dolore, per scelta, sganciarsi dalla morsa del risentimento con inesorabile certezza ci porta sul sentiero del perdono. Il Perdono non è qualcosa che appartiene solo all’alveo della religione, ma è piuttosto un cammino di accettazione di una realtà che non abbiamo potuto o saputo vivere secondo le proprie esigenze e pertanto è stato lastricato di piccoli e grandi patimenti che hanno condizionato la nostra esistenza.

 

Perdonare è passare dal livore che ci logora dentro ad un'accettazione di come sono andate le cose. Ma anche qui, la Signora Responsabilità si siede al tavolo della discussione e chiede che ci prendiamo le nostre responsabilità su come effettivamente si sono svolte le cose.

 

"Chi è nato e venuto a questo mondo per conoscere la verità, non può perseverare nell’ignoranza, l’impulso al Reale in lui è indomito e ribelle. Soffre enormemente sotto il peso e il dominio della falsità, della calunnia, dell’inganno, della morte continua; è assetato di libertà, di giustizia, di vita reale e di Verità.”

(Carl Gustav Jung)

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