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L'atteggiamento transpersonale
Considerazioni preliminari
In un precedente scritto su adattamento e istinto spirituale (Bergonzi 1997) abbiamo rilevato come l' approccio teorico-pratico sotteso alla psicologia analitica junghiana sia per sua stessa natura portato a confrontarsi con molteplici livelli di adattamento, specifici alle diverse fasi di sviluppo psichico in cui viene di volta in volta a trovarsi il paziente, secondo un continuum di mète evolutive diverse che vanno dall'integrazione dell'Io alla dinamica transpersonale del Selbst.
In linea con questa prospettiva preliminare, nel presente articolo verranno investigate alcune problematiche cruciali sollevate dall'emergere della dimensione transpersonale nel trattamento analitico, cercando da un lato di chiarirne gli aspetti più controversi concernenti l'uso terapeutico del materiale archetipico e, dall'altro, di esplorare più in generale il modo in cui si manifesta nella psicoterapia junghiana l'apertura al transpersonale.
Il paradigma transpersonale
In anni recenti, la cosiddetta 'psicologia transpersonale' - che riconosce esplicitamente in C.G.Jung uno dei propri precursori e 'padri fondatori'- ha sistematizzato un modello teorico (il cosiddetto 'spettro della coscienza') basato su un paradigma evolutivo della psiche che colloca i vari livelli di maturazione entro l'arco di tre successive fasi di sviluppo: lo stadio 'pre-egoico', lo stadio 'egoico' e lo stadio 'trans-egoico' (Wilber 1977; 1979; 1981; 1986).
Lo stadio pre-egoico comprende quella vasta gamma di esperienze psichiche in cui manca un vero e proprio Io strutturato: le immagini di sé e dell'oggetto non sono ancora ben differenziate, né i loro precursori arcaici appaiono integrati. Tale stadio occupa naturalmente tutto il primo arco di sviluppo psichico del bambino (dalla fase simbiotica fino al compimento di quella di separazione-individuazione) e solo gradualmente si evolve verso un'immagine di sé e dell'oggetto ben integrata (stadio egoico). Qualora si verifichi un difetto evolutivo dell'Io, possono avvenire regressioni più o meno reversibili verso lo stadio pre-egoico, come accade nelle psicosi (dispersione dell'Io con esame di realtà pregiudicato), negli stati borderline (dispersione dell'Io con esame di realtà integro) o anche in temporanee fasi di regressione nevrotica profonda (Kernberg 1989).
In assenza di difetti nello sviluppo psichico, lo stadio pre-egoico evolve naturalmente in quello egoico: qui la raggiunta integrazione dell'Io (con immagini ben differenziate di sé e dell'oggetto) permette un esame di realtà pressoché intatto. In questa fascia evolutiva si manifesta una gamma di esperienze psichiche che vanno dalla psicopatologia nevrotica alla cosiddetta 'normalità'.
Col raggiungimento di un Io sano e ben integrato, tuttavia, il naturale processo evolutivo della psiche non si arresta: il confronto con il destino, con i grandi temi della vita e della morte, con il 'senso' della reltà, con lo sviluppo delle potenzialità umane, con la creatività, con le istanze religiose e spirituali, col mistero dell'esistenza, porta l'Io da un lato a sondare le radici della propria unicità individuale e dall'altro ad aprirsi ad una dimensione più vasta e universale, al di là del proprio ristretto orizzonte egoico. Tali compiti evolutivi rientrano nella fase trans-egoica, la quale si differenzia dallo stadio pre-egoico (pur esprimendosi a volte con un simbolismo simile, in cui predomina la coniunctio oppositorum) soprattutto per il fatto che qui l'Io non è assente, ma soltanto - per così dire - reso trasparente e integrato in una più ampia visione della realtà.
In altri termini, laddove nello stadio pre-egoico di un infante in simbiosi con la madre (o di uno psicotico perduto nel proprio autismo, o in un paziente in stato di profonda regressione transferale) si attua uno stato di unione indifferenziata e di 'con-fusione' inconscia, nello stadio trans-egoico di un mistico pienamente realizzato si attua un'unione matura con l'universo intero, contrassegnata da consapevolezza e libertà: qui l'Io, lungi dall'essere abolito, è perfettamente in grado di agire nella realtà in modo efficace e sano, ma ruota nel contempo intorno a un centro di significato più vasto e transpersonale, che corrisponde al Selbst junghiano (Neumann 1953, pp.121-169).
Usi e abusi del materiale archetipico
In termini junghiani, potremmo dire che la mèta evolutiva specifica al passaggio dallo stadio pre-egoico a quello egoico è l'integrazione di un Io sano e ben adattato, mentre la mèta evolutiva specifica al passaggio dallo stadio egoico a quello trans-egoico è l'apertura alla totalità del Selbst.
Tale paradigma evolutivo, che sembra già implicito in nuce nel pensiero junghiano stesso, ci offre un utile strumento euristico per meglio indagare una questione di cruciale importanza per la psicologia analitica: come trattare il materale archetipico - situato, per definizione, al di là dell'orizzonte individuale - nel corso dell'analisi?
Alla luce del modello teorico qui proposto, appare chiaro che la chiave per decidere la natura dell'intervento terapeutico non risiede tanto nel materiale archetipico in sé, quanto nel rapporto fra quest'ultimo e l'attuale stadio evolutivo dell'Io.
Infatti un medesimo materiale archetipico, a seconda del contesto in cui compare, può assumere un significato pre-egoico o trans-egoico: nel primo caso l'Io, a causa di un'ancora incompleta maturazione, di un difetto di sviluppo o di una debolezza strutturale, è permeabile ed esposto agli archetipi come un bambino che si sente piccolo e sperduto di fronte a forze troppo più grandi di lui, oppure usa la dimensione archetipica come difesa per rimuovere e tenere distanti i tanto più dolorosi conflitti del livello personale; nel secondo caso, una volta realizzata una soddisfacente integrazione dell'Io, il paziente è sollecitato dall'istinto verso la totalità ad affrontare un ulteriore passo evolutivo dalla centralità dell'Io a quella del Selbst.
In un contesto pre-egoico, dunque, dove la mèta evolutiva predominante è l'integrazione dell'Io, in sede interpretativa sarà più conveniente trascurare per il momento gli aspetti transpersonali del materiale archetipico e ricondurre quest'ultimo sul piano dei conflitti personali, attraverso un'attenta analisi delle associazioni, del contesto adattivo, nonché dei fattori genetici e transferali.
In un contesto trans-egoico, invece, in cui la predominante mèta evolutiva diventa l'individuazione come esperienza del Selbst, sarà possibile lasciare più fiduciosamente che il paziente s'interroghi sul senso esistenziale e spirituale del materiale archetipico, fermo restando il compito di segnalare eventuali risvolti personali o conflittuali, qualora emergano con chiarezza.
Non bisogna comunque mai dimenticare i ripetuti avvertimenti di Jung circa i rischi d'inflazione inconscia, qualora gli archetipi emergenti non siano continuamente rapportati alla concreta situazione personale dell'individuo e integrati così alla coscienza. Scrive per esempio Jung in Psicologia della traslazione:
L'uomo dotato di ragione che vive in questo mondo deve differenziarsi dall'uomo che potremmo definire "eterno". (...) Le verità "eterne", quando reprimono l'Io singolo dell'individuo e vivono a sue spese e a suo danno, si trasformano in pericolosi fattori di turbamento. Se la nostra psicologia è costretta dalle condizioni particolari del suo materiale empirico a sottolineare l'importanza dell'inconscio, ciò non significa affatto che sia posta in sottordine l'importanza della coscienza. Si tratta soltanto di limitarne l'unilateralità e la tendenza a sopravvalutarla, facendo uso di una certa relativizzazione. La relativizzazione non deve però spingersi al punto che il fascino emanante dalle verità archetipiche sopraffaccia l'Io. L'Io vive nello spazio e nel tempo e, se vuol vivere, deve adeguarsi alle loro leggi. Ma se viene assimilato all'inconscio al punto che ogni decisione è lasciata a quest'ultimo, allora l'Io è soffocato e non c'è più nulla in cui l'inconscio possa essere integrato (Jung 1946, pp.293-294).
Il rischio che sovente corre il terapeuta junghiano è appunto quello di colludere con i tentativi, da parte del paziente, di baloccarsi col fascino degli aspetti 'spirituali' e 'transpersonali' del materiale archetipico, quando invece ancora ci si muove in una fase evolutiva pre-egoica o egoica.
Questo problema controtransferale fa leva infatti sui meccanismi difensivi del terapeuta stesso, perché, da un lato, indulgere col paziente in simbolismi di natura universale gli permette di rimuovere i dolorosi ed ansiogeni conflitti interpersonali che inevitabilmente affiorerebbero nell'ambivalenza o nell'ostilità del transfert e, dall'altro, l'illusione di guidare qualcuno lungo un iter spirituale verso il Selbst lo fa sentire una specie di guru saggio e buono, in modo da compensare con un senso di onnipotenza narcisistica eventuali fragilità del proprio Io (tradendo così il mandato affidatogli dal paziente stesso, che ha come mèta primaria la guarigione psichica).
Una psicoterapia trasformata inopinatamente in religione iniziatica può infatti facilmente tradire le proprie lecite finalità.
Un esempio clinico (I)
Un esempio clinico può meglio illustrare questo punto cruciale. Poco tempo dopo l'inizio dell'analisi, una paziente borderline portò il seguente sogno:
Vedo un meraviglioso paesaggio naturale, con verdi prati, boschi, colline, corsi d'acqua, animali che pascolano pacificamente.
Il 'custode' che veglia su questi luoghi è un vecchio dall'aria saggia. Mi dice: "Un giorno sarai tu la custode di questi luoghi. Ma ricordati: devi sempre stare in mezzo, fra il sole e la luna!".
A prima vista, appare subito evidente il carattere archetipico del sogno e il significato prospettico che rimanda ad una possibile, futura coniunctio oppositorum. Tuttavia, sia la diagnosi del caso, sia la fase iniziale del lavoro terapeutico inducono prudenza nell'esternare esplicitamente in sede interpretativa questi aspetti, che pur sono presenti, ma forse in second'ordine rispetto alle prioritarie esigenze specifiche di questo stadio del trattamento.
Una maggiore attenzione alle associazioni rivela dettagli significativi per un corretto intevento terapeutico. Anzitutto, il sogno viene dopo alcune sedute in cui la paziente ha sperimentato sentimenti di forte ambivalenza nei confronti del terapeuta, vissuto ora come una specie di orco, ora come un salvatore. In secondo luogo, il 'vecchio saggio' è associato ad un collega del terapeuta che ne condivide lo studio, da lei fugacemente intravisto entrando in sala d'aspetto (il che richiede un'attenta esplorazione in sede associativa). Infine, il sole e la luna le ricordano una frase che da bambina era solito sussurrarle il padre (con cui ha sempre avuto un rapporto assai problematico): "Ti voglio bene più del sole e della luna".
Alla luce di queste associazioni, emerge dunque un quadro di significati simbolici più legato ai conflitti personali della paziente e più urgente dunque da analizzare, in questa fase della terapia, che non l'aspetto archetipico.
La dispersione d'identità, propria della struttura borderline,implica l'utilizzazione di meccanismi di difesa più primitivi della rimozione, come appunto la scissione, in cui l'oggetto viene vissuto un momento come tutto buono e un altro come tutto cattivo (Kernberg 1984, pp.15-39; 1989). Appunto questa forma aveva assunto, durante le sedute precedenti, l'ambivalenza manifestata dalla paziente nei confronti del terapeuta, come risposta difensiva ai primi accenni dell'instaurarsi del transfert.
Il sogno sembra dunque da un lato segnalare l'inizio di un transfert di tipo paterno (l'analista 'vecchio saggio', l'amorosa frase del padre), e dall'altro incarnare una funzione correttiva inconscia di natura compensatoria (l'ingiunzione di restare in mezzo agli opposti, fra il sole e la luna) rispetto alle oscillazioni emotive ambivalenti (tutte in bianco-e-nero), tipiche del meccanismo della scissione, stimolate come risposta difensiva contro il transfert.
In questo frangente, un'interpretazione della coniunctio oppositorum unicamente in chiave prospettico-archetipica avrebbe offerto, sia all'analista sia alla paziente, un facile pretesto difensivo per rimuovere i sentimenti fortemente ambivalenti (non solo dunque negativi, ma anche positivi) che la paziente cominciava a nutrire nei confronti del terapeuta in risposta all'instaurarsi del transfert. In tal caso, infatti, al livello cosciente la paziente avrebbe anche potuto sentirsi rassicurata e vivere il terapeuta come un saggio (e seducente) guru, ma certamente una parte del suo inconscio avrebbe sentito trascurati i suoi più reali e pressanti bisogni del momento (Langs 1985).
Col passare del tempo, nel corso della terapia risultò sempre più chiaro che il frequente ricorso onirico a materiali archetipici da parte della paziente aveva due principali scopi: da un lato comunicare vividamente la percezione infantile che il suo fragile Io aveva di sé come di una foglia al vento, trascinata qua e là da forze incontrollabili tanto più grandi di lei (vortici, streghe, angeli, paradisi e inferni); dall'altro, usare a scopi difensivi l'universalità (e dunque la genericità) del simbolismo archetipico, per non accostarsi troppo ai brucianti conflitti di un'esistenza personale vissuta come squallida e insignificante.
Dopo circa quattro anni di analisi, vòlta prevalentemente a ricollegare i temi archetipici agli aspetti più personali connessi con l'integrazione dell'Io, la paziente presentò una sequenza di sogni di cui riporto una sintesi:
Un gigante buono mi culla fra le sue braccia. Poi mi depone a terra. Mi trovo in uno spazio e in un tempo di sogno, dove tutto è omogeneamente bianco-grigio. Comincio a camminare sulla terra, ma non è la terra normale: sotto i miei passi è morbida, come se fosse viva, la pelle di una grande creatura vivente.
Poi, pian piano, la terra sotto di me si fa solida e mi trovo nel mondo normale, in città. Vado a cercare un appartamento per me nel quartiere di Piazza Vittorio (Roma).
Nelle associazioni, la paziente nota che il quartiere citato nel sogno le piace perché, vivendoci molti immigrati, è il punto d'incontro di tante diverse razze e culture; aggiunge inoltre che Piazza Vittorio è quadrata, circondata da un affollato mercato, ma cela, nascosta all'interno dei suoi giardini, una porta alchemica.
Il sogno sembra segnare un importante passo evolutivo, in cui la paziente, dopo aver vissuto uno stato simbiotico positivo col terapeuta (in braccio al gigante buono), può gradualmente concedersi di abbandonare il mondo archetipico-infantile - che per tanto tempo le è servito come indispensabile 'nicchia' protettiva - per muovere i primi passi in una realtà più quotidiana (il mercato) dove è possibile confrontarsi con l'alterità dei rapporti oggettuali (le multi-etnìe degli immigrati), nella consapevolezza che la possibilità di una reale trasformazione interiore (porta alchemica) si trova celata nel cuore stesso del mondo personale e quotidiano e non al di fuori di esso, in qualche mitico aldilà.
L'anima malata e' un'anima umana
Ma le cautele nel trattare il materiale archetipico in sede interpretativa non devono indurci a gettar via il bambino con l'acqua sporca, tanto più che uno dei tratti specifici dell'immagine che comunemente si ha del 'terapeuta junghiano' è appunto l'apertura al transpersonale.
Accade spesso che, nel primo colloquio esplorativo, il paziente dichiari di aver scelto intenzionalmente di rivolgersi a uno psicoterapeuta junghiano, perché l'idea che se ne è fatta gli garantisce che i propri interessi e le proprie aspirazioni di natura religiosa o spirituale possano ricevere il debito riconoscimento e rispetto, senza essere sviliti e ridotti a semplici mascheramenti di pulsioni di natura più 'bassa', per esempio sessuale.
E' abbastanza evidente il carattere difensivo che spesso assumono queste affermazioni: prima di inoltrarsi in in un terreno ignoto che può trasformare profondamente la sua psiche, l'Io ancora fragile del paziente teme ogni cambiamento che potrebbe destabilizzarlo (Searles 1965, pp.428-449) e cerca di garantirsi l'intoccabilità di alcune 'sacche d'identità' (spesso di natura compensatoria e dunque apparentemente 'spirituali' ed 'elevate') che devono restare intatte nella loro 'purezza'.
Altrettanto ovvio è che, se il terapeuta lasciasse inanalizzate tali sacche - colludendo col tentativo del paziente di fissarsi sulle zone di luce senza considerare l'ombra da esse gettata - verrebbe meno al mandato affidatogli dalla parte più sana del paziente, che è appunto quello di curarlo considerando la totalità della sua psiche.
Ma nella richiesta del paziente non c'è solo un aspetto difensivo. Essa esprime anche un'esigenza profonda che è presente - consciamente o inconsciamente - in ogni persona che si sottoponga ad una psicoterapia, indipendentemente dalla gravità della sua patologia. Vale a dire, l'esigenza che, nel corso del processo terapeutico, non venga mai persa di vista la sua unicità come essere umano posto di fronte alla universalità dei grandi temi che scandiscono l'esistenza: la nascita, l'amore, la morte, il destino, la caducità dell'essere umano, il mistero di una dimensione più vasta dell'Io. Scrive a questo proposito Jung:
Lo psicoterapeuta non deve rincantucciarsi nella patologia e ostinarsi a non vedere che anche l'anima malata è un'anima umana, che, nonostante la malattia, partecipa inconsciamente alla totalità della vita psichica dell'umanità (Jung 1929a, p.363).
In altri termini, il paziente sente il bisogno che il terapeuta da un lato comprenda la complessità del suo mondo individuale, con i suoi conflitti e le sue sofferenze, senza ridurlo a un mero 'caso clinico' classificabile secondo categorie spersonalizzanti; ma, dall'altro, non perda mai di vista la dimensione ora tragica, ora epica, ora spirituale, che fa di questo caso individuale, unico ed irripetibile, lo specchio di valori più vasti e universali, lo specchio di quella cosa grande e misteriosa che è la vita.
Il timore del paziente è, in definitiva, che il terapeuta applichi su di lui quel riduzionismo prosaico e banalizzante di cui viene accusato da San Pietro, alle porte del paradiso, lo psicologo protagonista di un divertente apologo narrato da May:
Tu sei accusato di nimis simplicandum! Tu hai passato la vita facendo di travi nottolini. (...) Quando l'uomo era tragico, tu lo hai fatto banale. Quando era picaresco, tu lo hai chiamato insignificante. Quando soffriva passivamente, tu lo hai descritto come smorfioso; e quando radunava abbastanza coraggio per agire, tu lo definivi stimolo e reazione. (...)
Tu non hai nemmeno visto l'uomo che stavi studiando! Non credi che io sappia che è un verme qualche volta? Ma quel verme è anche capace di stare in piedi e di mettere una pietra sull'altra per fare il Partenone. E quell'uomo si fermò una volta nel deserto accanto al Nilo e guardò le stelle e si fece delle domande. E quando le stelle tramontarono tornò nella sua caverna sulle colline e studiò le gambe dell'ibis dipinte sopra le stoviglie. E prese un bastone carbonizzato dal suo fuoco e disegnò un triangolo sul muro, e inventò la matematica. E così imparò a calcolare l'orbita delle stelle, e imparò a piantare i suoi raccolti secondo le piene e le secche del Nilo. Un verme fa questo? Tutto questo lo avevi dimenticato, vero ? (May 1967, pp.11-13).
L'apertura al Selbst
Come evitare dunque le secche del riduzionismo banalizzante da un lato e dello pseudo-spiritualismo compensatorio dall'altro?
Sul piano della prassi psicoterapeutica, si è già visto che un'attenta adesione al materiale clinico emergente di momento in momento, nonché il rispetto delle mète evolutive specifiche dell'attuale fase di sviluppo del paziente, rappresentano un valido strumento per determinare i modi e i tempi con cui l'interpretazione del materiale archetipico va sintonizzata di volta in volta sul livello personale o su quello transpersonale.
Ma questi aspetti pratici, pur importanti, non esauriscono la questione fondamentale, che potremmo anche formulare nel modo seguente: che cosa significa, per uno psicoterapeuta junghiano, essere aperto alla dimensione transpersonale del Selbst?
Sarebbe vano cercare di tracciare un codice di comportamento, un identikit ideale del 'terapeuta transpersonale' in base a qualche 'ortodosso' modello teorico o pratico. Significherebbe tradire lo spirito antidogmatico che costitisce parte ineliminabile dell'identità junghiana: in primo luogo, perché Jung stesso rifuggiva da ogni tentazione autoritaria di stabilire norme assolute, tanto da rinunciare a costruire un sistema teorico graniticamente conchiuso, adottando piuttosto una modalità di ricerca spiraliforme, aperta a continue trasformazioni; in secondo luogo, perché l'evoluzione storica degli indirizzi post-junghiani ha evidenziato - proprio per l'assenza di un'ortodossa autorità centrale - una feconda pluralità di vedute e una grande differenziazione interna, sia dal punto di vista teorico sia da quello pragmatico (Samuels 1985).
Alcuni terapeuti, per fare un esempio, adottano una tecnica d'impronta psicoanalitica classica, ma non per questo si ritengono meno junghiani di altri che usano sistemi più 'archetipici' o espressivi. La dimensione transpersonale non può ridursi ad una mera prassi di tecnica analitica, così come l'esecuzione di una fuga bachiana non si esaurisce in un mero esercizio di tecnica organistica.
L'intera questione va dunque considerata da un punto di vista diverso: l'apertura transpersonale del terapeuta non consiste tanto nella tecnica adottata o nella frequenza con cui egli impiega interpretazioni in chiave archetipica, quanto piuttosto nell'atteggiamento transpersonale che egli assume dentro di sé in relazione al paziente, in ogni fase dell'analisi.
Non si tratta, in altri termini, di essere riduttivi e 'freudiani' all'inizio della terapia (o con i pazienti giovani) e 'spirituali' nelle fasi terminali dell'analisi (o con i pazienti nella seconda metà della vita); si tratta piuttosto di mantere dentro di sé - per lo più silenziosamente, a volte esprimendolo - un costante atteggiamento transpersonale, indipendentemente dalla tecnica adottata e dal fatto che si stia lavorando sull'ombra o sull'istinto spirituale.
In che cosa consiste l'atteggiamento transpersonale?
Da quanto siamo andati dicendo finora, appare abbastanza chiaro ciò che esso non è: non è colludere seduttivamente con le false identificazioni compensatorie di natura 'elevata' o 'spirituale' usate dal paziente a scopo difensivo; non è il programmatico ricorso a interpretazioni in chiave archetipica insensibili alle mète evolutive appropriate al momento; non è entrare nel ruolo di guru pronto a educare o 'iniziare' il paziente lungo una qualche via spirituale.
Per comprendere che cosa sia l'atteggiamento transpersonale nell'ambito del lavoro psicoterapeutico, occorre anzitutto sfatare l'idea che sia qualcosa di speciale, emergente soltanto in rare circostanze: se infatti si tratta di un atteggiamento - e non di una qualche specifica azione - esso non è identificabile con interventi o tecniche particolari, ma dev'essere in qualche modo sempre presente nel processo terapeutico.
L'atteggiamento terapeutico
Per comprendere meglio questo punto cruciale, la nostra indagine deve allora spostarsi su quello che potremmo chiamare l'atteggiamento terapeutico, il quale, in quanto orientato verso la guarigione, è presente, anche se in misura diversa, sia nell'analista sia nel paziente (Jung 1929b, pp.81-84).
Qui ci limiteremo a menzionare due aspetti fondamentali e strutturanti dell'atteggiamento terapeutico: l'attenzione non selettiva e non giudicante e il regime di astinenza.
Nella libera associazione (Freud 1913, pp.55-57; Greenson 1967, pp.31-32; Gill 1994, pp.85-107), il paziente cerca di osservare e comunicare al terapeuta il materiale emergente di momento in momento nella sua psiche senza scegliere, giudicare o censurare alcunché, in modo che possano aver voce anche quelle parti e risorse inconscie usualmente bandite dalla coscienza perché considerate vergognose, paurose, sconvenienti, insignificanti o semplicemente ignote.
Nello stesso tempo, con l'esercizio dell''attenzione omogneamente sospesa' o attenzione fluttuante (Freud 1912, pp.34-35) il terapeuta osserva il materiale in atteggiamento ricettivo, senza selezionare, giudicare o censurare alcunché, cercando anzi di purificare la propria attenzione da aspettative, inclinazioni e teorie (Freud) o, per usare il linguaggio di Bion (1970), da desiderio, memoria e conoscenza.
Questa purificazione dell'attenzione, che va resa quanto più possibile non selettiva e non giudicante, è dunque un processo speculare che riguarda sia il terapeuta sia il paziente. Come scrive Freud:
La norma di prender nota di ogni cosa in modo uniforme è il corrispettivo necessario di quanto si pretende dall'analizzato, e cioè che racconti senza sottoporre a critica e selezione tutto ciò che gli passa per il capo. (...)
Come l'analizzato deve comunicare tutto ciò che riesce a cogliere mediante l'autosservazione a prescindere da ogni obbiezione logica e affettiva che intendesse indurlo ad operare una selezione, così il medico deve mettersi in condizione di utilizzare tutto ciò che gli viene comunicato ai fini dell'interpretazione (...): egli deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricevente verso l'inconscio del malato. (...)
La riuscita migliore si ha (...) nei casi in cui si procede senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti (Freud 1912, pp.34-38).
Tutto ciò è profondamente collegato al secondo aspetto dell'atteggiamento terapeutico, vale a dire il regime di astinenza (Freud 1914b; Greenson 1967, pp.230-234), vòlto ad evitare fra paziente e terapeuta ogni impropria gratificazione nevrotica e ogni tipo di interazione concreta (non precedentemente codificata) che sia diversa dall'osservare e dal comprendere.
A ben vedere, si tratta fondamentalmente di astenersi dall'agire al fine di comprendere, invertendo quel processo di coazione a ripetere per cui ciò che non riusciamo a ricordare (o, meglio, a integrare nella coscienza), siamo obbligati a ripetere nelle nostre azioni (Freud 1914a).
Anche qui vige una certa specularità: osservando e verbalizzando il proprio materiale psichico, anziché lasciarsi manovrare compulsivamente da esso attraverso azioni di scarico che ne rimuovono le motivazioni profonde, il paziente si astiene dall'azione al fine di comprendere; esattamente come, astenendosi dall'agire nei confronti del paziente (attraverso, per esempio, consigli, direttive, contatti fisici, opinioni personali, ecc.), il terapeuta approfondisce ed amplia le proprie capacità di empatia e di insight, al fine di comprendere e interpretare le dinamiche del paziente.
L'atteggiamento transpersonale
L'ipotesi che stiamo cercando di verificare è se questi aspetti fondamentali dell'atteggiamento terapeutico contengano in sé - in modo più o meno esplicito - un seme di quello che abbiamo chiamato 'atteggiamento transpersonale'.
Si è visto in precedenza il duplice bisogno, da parte del paziente, che da un lato venga compresa l'unicità individuale delle sue dinamiche psichiche e dall'altro venga riconosciuto il valore universale (e dunque transpersonale) della condizione umana che in esse si riflette e vive. Per citare ancora Jung:
Anche nel caso della sofferenza psicologica - che isola sempre l'individuo dal mondo delle cosiddette persone normali - è fondamentale capire che il conflitto non nasce solo da una carenza personale, ma è anche una sofferenza comune al resto dell'umanità (...). Questo approccio collettivo innalza l'individuo al di sopra di se stesso e lo collega all'umanità (Jung 1935, p.115).
In questa prospettiva, l'attenzione non giudicante e non selettiva dell'atteggiamento terapeutico costituisce uno strumento di insostituibile valore: essa infatti, nell'osservare con imparziale dedizione ogni aspetto del materiale psichico emergente di momento in momento (dal più repellente al più sublime), comunica al paziente che nulla di ciò che egli fa, pensa, sente ed è, è indegno di interesse e di cura. "Ciò che accade nella profondità del nostro essere, è degno di tutto il nostro amore", scrive Rilke (1929), cui fanno eco le riflessioni di Greenson sull'atteggiamento terapeutico:
L'analista deve mostrare al paziente, nel suo lavoro quotidiano, che per lui ogni sua parola e ogni suo comportamento sono degni strumenti di lavoro al fine di raggiungere la comprensione. Nulla è mai troppo banale, o strano, o ripugnante. La frequenza delle sedute, la lunga durata del trattamento, la riluttanza a mancare agli appuntamenti, tutto ciò attesta la sollecitudine dell'analista per raggiungere una profonda comprensione del paziente. L'analista deve proteggere l'autostima e il sentimento di dignità del paziente (Greenson 1967, p.314).
L'attenzione terapeutica non selettiva e non giudicante - nella misura in cui non solo osserva imparzialmente tutto il materiale psichico con l'unico scopo di comprenderlo (anziché assolverlo o condannarlo), ma gli conferisce anche dignità e valore in quanto espressione di una storia individuale che si fa specchio dell'umanità - si apre ad una dimensione transpersonale, in quanto non strettamente legata alla soggettiva reattività egoica.
Il regime di astinenza, dal canto suo, ci introduce ad un altro aspetto essenziale dell'atteggiamento transpersonale. Astenersi dall'agire in preda a inclinazioni, aspirazioni, desideri o teorie preconcette, limitandosi ad osservare per comprendere, implica una rinuncia all'idea - radicata in un senso d'infantile onnipotenza - che la coscienza del terapeuta possa fare qualcosa di deliberatamente attivo e volontaristico per influenzare e aiutare il paziente.
La rinuncia psicoanalitica ai metodi direttivi, educativi o suggestivi - in breve la rinuncia a un'azione che sia diversa dall'osservare, comprendere e interpretare - presuppone la fiducia in un processo autonomo di autoguarigione che spontaneamente e indefessamente cerca la propria via, se soltanto vengono rimossi gli ostacoli che ne rallentano od occludono la crescita. Bion (1970) giunge ad usare il termine forte di 'fede' per indicare la capacità di restare immobili, liberi da memoria e desiderio, ad osservare l'ignoto che si manifesta nel presente (il cosiddetto 'punto 0').
Tale fiducia nel potere guaritivo di una comprensione non manipolativa, che dissolve l'illusoria onnipotenza di una coscienza inflazionata, fallacemente convinta di poter condizionare direttamente gli altri, apre il terapeuta ad una dimensione transpersonale: c'è qualcosa di più grande e potente, al di là di ciò che gli angusti 'io' del paziente e del terapeuta possano fare o dire, che cresce verso la guarigione.
Searles esprime questo concetto in modo estremamente chiaro ed efficace:
Quanto più esperto e sicuro diventa il terapeuta nel suo lavoro, tanto più profondamente capisce che si tratta di un processo inarrestabile, come un fiume che né lui né il paziente potranno facilmente, consciamente e deliberatamente, da soli, deviare dal corso che esso tende a scavarsi, e che ha una forza irresistibile, se solo saremo capaci di abbandonarci alla sua corrente. Quando il terapeuta comprende tutto questo, si rende conto di quanto fosse illusorio il suo senso di onnipotenza soggettiva, ma anche di quanto fosse infondato il suo senso di colpa (Searles 1965, p.539).
Si tratta, in termini junghiani, del processo di individuazione, con cui Jung conferisce una prospettiva teorica feconda a ciò che era soltanto implicito nella tecnica freudiana. In una certa misura, il terapeuta opera in un regime di astinenza dai propri bisogni egoici, per permettere al materiale psichico del paziente di esprimersi liberamente, indicando la propria via verso l'individuazione senza interferenze da parte della ristretta coscienza egoica sia del terapeuta sia del paziente stesso:
Il Sé racchiude in sé infinitamente di più che un Io soltanto, come dimostra da tempo immemorabile la simbologia: esso è l'altro o gli altri esattamente come l'Io. L'individuazione non esclude ma include il mondo (Jung 1946/54, p.243).
L'atteggiamento transpersonale implicito in questa astinenza dall'ego (Aa.Vv. 1994) è lo strumento principe per lasciare spazio alla dinamica del Selbst, che per sua natura, secondo Jung, agisce come un istinto al di là dell'Io:
Questo "Sé" (...) costituisce empiricamente un'immagine dello scopo della vita prodotta spontaneamente dall'inconscio, al di là dei desideri e dei timori della coscienza. Esso rappresenta lo scopo dell'uomo totale, vale a dire la realizzazione della sua totalità e della sua individualità, consenziente o meno la sua volontà. Forza motrice di questo processo è l'istinto che provvede affinché tutto quanto deve far parte di una vita individuale ne faccia effettivamente parte, sia con, sia senza il consenso del soggetto, sia che questi abbia, sia che non abbia coscienza di quanto sta avvenendo. E' ovvio che soggettivamente si abbia una grande differenza se si sa quello che si sta vivendo, se si comprende quello che si fa (...), oppure, al contrario, non avvenga nulla di tutto ciò. (...) L'incoscienza (...) viene colpita da gravi pene e perciò tutta la natura inconscia aspira ardentemente alla luce della coscienza (Jung 1952, p.440).
Di qui il ridimensionamento di ogni attivismo unilaterale dell'Io nel processo terapeutico, processo che s'identifica primariamente con la funzione di osservare e comprendere:
Il terapeuta può soltanto osservare e cercar di capire i tentativi di ristabilimento e di guarigione intrapresi dalla stessa natura.(...) I simboli dell'inconscio devono, per diventare efficaci, essere "compresi" dalla coscienza, essere cioè assimilati e integrati (Jung 1951, p.134).
Jung sottolinea qui che il 'non-agire' del processo terapeutico (simile, in questo, al concetto di wu-wei taoista) non è affatto uno stato di mera rassegnazione o passività fatalistica, poiché implica l'indispensabile e attiva partecipazione dell'Io attraverso una costante ed energica presa di coscienza dei materiali inconsci, la quale, però, può funzionare in modo ottimale soltanto se è esente da ogni intento manipolatorio.
La coscienza non ha bisogno di 'fare' alcunché, se non ampliare e approfondire se stessa in misura tale da poter accompagnare il processo nei suoi modi e tempi, proteggendolo da interferenze che ne blocchino o rallentino il corso.
E qui abbiamo un ulteriore elemento transpersonale, perché, nel comune sforzo di approfondire, ampliare e purificare la propria coscienza attraverso l'esercizio dell'attenzione non selettiva e non giudicante, terapeuta e paziente cominciano entrambi a sentirsi parte di un 'campo coscienziale' comune (dove anche gli inconsci comunicano in maniera più diretta), che fa da 'contenitore più ampio' al materiale psichico emergente, offrendone una visione 'panoramica'.
In altri termini, non solo il processo di guarigione psichica e di individuazione si muove spontaneamente e autonomamente al di là del controllo dell'Io, ma anche il campo di coscienza che lo accompagna sembra in qualche misura andare oltre i limiti dell'orizzonte egoico, in uno spazio più ampio ed imparziale al quale l'Io sente di partecipare, ma senza esserne il primo attore o il padrone incontrastato.
Un esempio clinico (II)
Un ulteriore esempio clinico può meglio chiarire il senso di queste riflessioni.
Poco tempo dopo l'inizio dell'analisi, una paziente borderline si presentò alla seduta quasi senza capelli. Riferì che il giorno precedente era stata presa da un impulso suicida. L'unica azione con cui aveva sentito di poterlo tenere a bada fu quella di afferrare le forbici e tagliarsi i capelli. Mentre lo faceva, pensava con terrore a che cosa sarebbe successo quando i capelli fossero finiti.
Il terapeuta, avvertendo al livello controtransferale la pressione angosciosa che tutto questo aveva suscitato in lui, sentiva dentro di sé un forte impulso a dire o fare qualcosa che alleviasse la tensione e rassicurasse la paziente, ma si rendeva anche conto che ogni deroga dall'atteggiamento strettamente analitico e interpretativo, soprattutto in quel frangente, non avrebbe fatto altro che allarmarla di più. Preferì pertanto impiegare il resto della seduta ad esplorare il contesto adattivo (interno ed esterno all'analisi) che aveva determinato l'insorgere dell'impulso suicida e i significati simbolici dell'atto di tagliarsi i capelli.
Non è rilevante, ai fini del nostro discorso, menzionare il contenuto del materiale associativo emerso durante la seduta; qui noteremo soltanto che la capacità dell'analista di contenere dentro di sé l'angoscia trasmessagli dalla paziente - evitando agìti per scaricare la tensione e proseguendo come al solito l'ordinario lavoro analitico - ebbe un effetto rassicurante sulla paziente, che fu in grado di elaborare simbolicamente il significato di ciò che era accaduto.
Qualche seduta dopo, la paziente portò il sogno seguente:
Affacciandomi dal mio balcone sul giardino sottostante, mi accorgo con stupore che dal basso enormi piante verdi stanno rigogliosamente crescendo a vista d'occhio, fin su verso il cielo. E' uno spettacolo meraviglioso.
Un grande senso di sollievo e di gioia mi pervade al pensiero che esse crescono da sole, spontaneamente, del tutto al di fuori della portata di ciò che io possa o non possa fare.
Anche prescindendo dalle eventuali associazioni (per esempio, l'accostamento fra crescita delle piante e ricrescita dei capelli), il significato del sogno sembra autoevidente e - a mio avviso - di natura transpersonale: in un frangente particolarmente drammatico della sua vita (impulsi suicidi), la paziente - in parte aiutata dal contenimento dell'analista - prende coscienza del fatto che, al di là del proprio Io limitato e sofferente, c'è nel profondo una sorgente di autoguarigione e di crescita che agisce in modo autonomo, con la stessa forza che hanno tutti i processi naturali.
Di fronte alla limpidezza di tali immagini e all'evidente sollievo con cui la paziente viveva emotivamente la nuova sicurezza interiore così intravista, il terapeuta non ritenne necessario 'interpretare' il sogno: si limitò a partecipare da spettatore, insieme con l'Io della paziente, alla 'sacralità' di quel momento. C'è, infatti, qualcosa di sacro in quella cattedrale di piante che crescono verso l'alto senza alcuno sforzo da parte dell'Io. E, nell'osservare insieme i movimenti profondi del processo di individuazione, le due coscienze (del terapeuta e della paziente) si sentono partecipi di questa sacralità, che le commuove e coinvolge entrambe.
Conclusioni
Dalle precedenti riflessioni, potremmo dunque trarre una conclusione dal sapore vagamente paradossale: l'atteggiamento analitico sembra già per sua stessa natura implicare un atteggiamento transpersonale, al punto che ogni psicoterapia radicalmente orientata verso la sanità non può che essere - più spesso inconsciamente che consciamente - anche transpersonale, nella misura in cui stimola e lascia agire forze di autoguarigione (e di maturazione spirituale) che operano ben oltre l'Io dei singoli partecipanti.
A Jung spetta il merito di aver per primo indagato e teorizzato le complesse dinamiche transpersonali naturalmente presenti nella psicoterapia, facilitandone la presa di coscienza da parte di chi le attivava in modo più o meno inconsapevole e massimizzandone in tal modo l'efficacia.
Soltanto aprendosi a tale atteggiamento transpersonale, il terapeuta può attingere le risorse necessarie per scandagliare i recessi più scuri e nascosti dell'animo umano con visione clinica, equanime e non giudicante, comprenderne l'intima connessione con l'individuo unico e irripetibile che ha di fronte e nel contempo onorare, attraverso e al di là di tutto ciò, la indistruttibile dignità che alberga in ogni manifestazione della psiche (per oscura o banale che sembri) come il sigillo nascosto di un senso più vasto e sacro, connesso con l'eterno mistero della vita e della morte.
Una profonda intuizione psicologica di Hesse (1924, p.471) sintetizza in modo mirabilmente chiaro il senso delle nostre riflessioni:
Come, sotto il microscopio, una cosa altrimenti invisibile o disgustosa, un grumo di sporcizia, può trasformarsi in un meraviglioso cielo stellato, così, sotto il microscopio di una vera psicologia (che non esiste ancora) ogni più piccolo moto di un'anima, foss'anche la più malvagia, sciocca o demente, diverrebbe uno spettacolo sacro e venerando, poiché in esso non vedremmo che un esempio, un'immagine simbolica della cosa più santa che si conosca: la vita.
Riassunto
L'articolo si propone di investigare alcune problematiche connesse con l'emergere della dimensione transpersonale nella psicologia analitica junghiana.
Nella prima parte si evidenzia come un corretto uso interpretativo del materiale archetipico debba essere sensibile alle specifiche mète evolutive del paziente, evitando da un lato un riduzionismo banalizzante e dall'altro uno pseudo-spiritualismo compensatorio o inflazionato.
Nella seconda parte si esplorano i significati dell''atteggiaento transpersonale' inteso come parte integrante del trattamento analitico, evidenziandone le strette connessioni con l''atteggiamento terapeutico' basato sull'attenzione non selettiva e sul regime di astinenza.
Alcuni esempi clinici illustrano le argomentazioni proposte.
Summary
This article aims at inquiring into some problems linked to the manifestation of the transpersonal dimension in junghian analytical psychology.
In the first part emphasis is laid on the fact that a correct interpretative utilization of the archetypal material must be sensitive to the specific developmental goals of the patient, avoiding the two extremes of a narrow reductionism and a compensatory or inflated pseudo-spiritualism.
In the second part an exploration is carried out into the meaning of the 'transpersonal attitude' as an integral part of the analytical treatment, emphasysing its close connection with the 'therapeutic attitude' rooted in non selective attention and the rule of abstinence.
Some clinical examples are given in order to cast more light upon the items under discussion.
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