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La fiaba come forma di Arte Terapia

di Annica Cerino

Chiunque abbia una seppur minima conoscenza riguardo alle fiabe, come pure ai miti, potrà rendersi conto del fatto che esistono degli schemi che si ripetono con delle varianti da cultura a cultura o di epoca in epoca. Quanti personaggi si conoscono, ad esempio, che siano sopravvissuti nel ventre di una balena? Il Pinocchio di Collodi non è stato certo il primo, l’hanno preceduto, ad esempio, il biblico Giona, rimasto all’interno della balena per tre notti e tre giorni, ma anche il greco Luciano di Samosata, che nella sua Storia vera narra di essere rimasto con la sua nave e l’intero equipaggio all’interno della balena per quasi due anni.

 

Spostando l’attenzione sui personaggi femminili, invece, a titolo di esempio si può rilevare come ritorni in più versioni la storia di Raperonzolo, chiamata ora Prezzemolina ora Petrosinella; per non parlare di personaggi come Cenerentola o Cappuccetto rosso, riproposti con nomi differenti in diverse culture decine e decine di volte. Al di là del nome dei personaggi, quello che resta invariato è lo schema di fondo.

 

Di esempi come questi se ne potrebbero fare tantissimi, ma quelli sopra riportati bastano per far sorgere il dubbio che dietro ad una fiaba possa celarsi qualcosa di ben più profondo di un semplice racconto da leggere ai bambini per farli addormentare.

 

Viene subito da chiedersi, dunque: cosa si nasconde dietro la ripetizione degli stessi modelli di base con delle varianti più o meno significative?

 

La fiaba, sia per il bambino che per l’adulto, è la rappresentazione di un panorama interiore; il simbolismo legato ai vari personaggi ci rivela i nostri personaggi interiori, coloro che costellano la nostra esistenza, vale a dire quelle parti che, pur vivendo nell’oscurità dell’inconsapevolezza, agiscono dentro, muovendo stati d’animo a volte inquietanti e a volte incomprensibili.

 

La fiaba ha radici antichissime, nasce dalla tradizione orale, per tramandare archetipi sociali, psicologici ed onirici attraverso i suoi vari contenuti. L’uso dei simboli nella fiaba è fortemente legato alla sfera emozionale più ancora che a quella razionale.

 

Secondo Carl Gustav Jung la fiaba costituisce l’espressione più autentica dei processi dell’inconscio collettivo, cioè quel serbatoio comune nel quale sono contenuti quelli che egli definisce archetipi, frutto della tendenza degli esseri umani ad elaborare in modi simili le esperienze che si ripetono di generazione in generazione.

 

Alla luce dell’interesse di Jung per la fiaba, risulta difficile non ricollegare la ripetitività che genera l’archetipo alla ripetitività delle fiabe, che pertanto risultano essere una vera e propria manifestazione dell’archetipo, sebbene, per il fatto stesso di essere percepito, sia stato già in parte modificato rispetto al contenuto inconscio di partenza.

 

Nel saggio Gli archetipi dell’inconscio collettivo, pubblicato per la prima volta nel 1934, Jung, dopo aver parlato dell’insegnamento esoterico nelle tribù primitive, asserisce che «altra ben nota espressione degli archetipi sono il “mito” e la “fiaba”. Ma anche qui si tratta di forme specificamente improntate, trasmesse nel corso di lunghi periodi.»

 

Alla luce di ciò, quindi, la fiaba si rivela una manifestazione dell’inconscio collettivo in parte già modificata dalla presa di coscienza; nonostante tale modifica, che la rende meno immediata rispetto ai sogni, ad esempio, essa conserva comunque una grande carica rivelativa. La fiaba ci parla di noi come esseri umani, ci parla delle paura, dei desideri che, rimasti intatti attraverso le generazioni, sono giunti fino a noi con tutta la loro carica emotiva.

 

Nel mondo fantastico della fiaba popolare ci si imbatte in personaggi e situazioni apparentemente lontani dalla nostra realtà, ma che, a ben vedere, ci riguardano molto da vicino. Per usare il linguaggio junghiano, la fiaba presenta degli archetipi che possono essere considerati aspetti della nostra personalità. Per riprendere solo alcuni degli esempi sopra riportati, è difficile non riconoscere in fiabe come quella di Cenerentola il desiderio di superare i limiti imposti dal contesto familiare e di riscattarsi grazie all’amore. In Cenerentola, come anche in Biancaneve, la situazione di partenza è determinata dall’assenza della figura materna; ricorre dunque in fiabe diverse anche il timore atavico della perdita della madre, che quando avviene dà origine ad una catena di dolore. Significativa è anche la paura ancestrale nei confronti della bestialità o dell’alterità in genere, che l’ignara Cappuccetto Rosso incontra nel bosco sotto forma di lupo: come non pensare alla parte di noi, forse la più ingenua o curiosa, che si lascia sedurre ascoltando le parole del male?

 

Il nucleo essenziale della fiaba, dunque, mostra in maniera chiara aspetti significativi della parte meno razionale dell’essere umano; la fiaba può essere un buon mediatore, che ci restituisce un nuovo panorama di noi e può accompagnarci su un sentiero di quel lungo percorso di individuazione  personale. Essa, in quanto espressione solo in parte razionalizzata dell’inconscio collettivo, può aiutarci a conoscerci meglio, mediante situazioni e personaggi che, spogliati della loro parte più superficiale, ci riflettono come uno specchio, restituendoci la nostra immagine autentica con tutti i suoi vizi e le sue virtù.

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